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Messaggero Veneto
Né ideologici né edonisti, giovani nel disagio
di Paolo Coltro

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3 giugno 2014.

“Tu mi guardi” di Laura Lauzzana: a Padova il ritratto di una generazione errante nel vuoto di senso.

Ma allora c’erano, a metà degli anni Novanta, i giovani che non volevano diventare berlusconiani… Eccoli in questo libro, fiotto scrosciante di esperienze, emozioni, sconfitte ed elucubrazioni che Laura Lauzzana intitola Tu mi guardi(Edizioni Anordest), ma è uno specchio, è lei che si guarda e si parla, si scava sotto la pelle liscia e bianca di studentessa appena uscita dall’università, di Padova naturalmente, pronta a camminare nel mondo da scoprire. È un mondo che si è rotto e si sta ricomponendo secondo altri criteri e stili, dove le certezze classiche, quelle della storia, si sgretolano; dove alcuni spartiacque ci sono già stati e non funzionano più; dove altri spartiacque si annunciano e sono devastanti nel loro fascino costruito. Insomma: una giovane spiazzata, di quella gioventù che senza saperlo è in mezzo a un guado: passati gli anni Settanta delle grandi lotte ideali ed ideologiche, smorzati gli anni Ottanta dell’edonismo reattivo, per i più pensosi ecco il vuoto di senso, tra esperienze finite e presente da inventare.

Si chiama Alice questa ragazza che cerca un bandolo e spera di trovarlo in un gruppo di amici variamente composito. Sembrano drop out, questi amici, vagamente ai margini ma coscienti e contenti di aver scelto di star lì, perfino orgogliosi di essere fuori dal tempo, se il tempo sta diventando quello che è. Per loro, e per Alice, è drammatico il tempo di fronte: con il mondo impegnato, globalmente e individualmente, in una corsa senza precedenti all’illusionismo, complici televisione e mondo dello spettacolo, in una immane trappola che convince il singolo di essere cacciatore mentre è preda facilissima e prevista. C’è chi ha vissuto, magari pericolosamente, gli anni di piombo e non può fare a meno di viverne il romanticismo postumo e decadente, magari sovrapponendolo ai bei tempi della giovinezza. C’è chi veleggia nel contemporaneo e dà l’esatta misura di come si alternino bonacce e colpi di vento che possono magari rovesciarti se non mandarti a fondo… C’è chi non rinuncia a un futuro possibile, ed Alice è tra questi, ma senza rinunciare a guardarsi dentro, perfino intorcolandosi, mentre è così facile, per moltissimi altri, guardare solo fuori e vedere quello che ti vogliono far vedere. Lo scampolo antropologico che il gruppo rappresenta in realtà non è composto di drop out: ma di drop in, gente che si ripiega in se stessa, con un piacere disperato venato di masochismo ma anche spesso di ironia. E Alice, che divide senza sesso la sua mansarda con uno di loro, è ingranaggio felice di questo gruppo, da cui impara, ascolta i discorsi dei “vecchi” autonomi, percepisce il senso del niente dei poco più grandi, ma soprattutto si fa trasportare da una corrente che non è quella principale – per fortuna. E sembra di vederla, nei vicoli del centro città, nelle osterie superstiti che senza cambiare né sedie né vino sono automaticamente diventate alternative, negli appartamenti sgangherati degli amici, tenere sempre pronto il taccuino su cui annotare discorsi impegnati e analisi profonde, sublimi idealità e stronzate qualsiasi che planano nel libro con una fedeltà percorsa appena appena da una vena ironica.

Tutto succede a Padova, che del laboratorio giovanile e politico che fu ora ha solo provette impolverate, strumenti abbandonati e tavoli rotti. È una Padova descritta benissimo nelle atmosfere, epicentro il Ghetto e quei vicoli che non permettono lo spettacolo e l’auto-ostensione dilagante, nicchia del sé insomma, una esteriorità che diventa interiorità. Certo, gli «amici ancora selvatici» vivono la sindrome della sconfitta, se non dell’inutilità, cercano in sé una volontà di opposizione che non riescono ad esprimere in azione, e non arrivano nemmeno a chiedersi perché. Eppure qualcosa cui opporsi c’è eccome. E qui il romanzo che non lo è, perché Lauzzana racconta il vissuto, dà pagine di tagliente precisione. Il mondo fatuo dei rampanti, la corsa frenetica all’apparire, il circuito mediatico che si autoalimenta così come queste figure diventate sfingi senza spessore, in un teatro che del teatro non ha le profondità ma solo la finzione, tutto questo diventa descrizione feroce perché esatta.

Laura Lauzzana ha una laurea in filosofia e studi di antropologia, in quello zainetto che oggi non ha più: che le siano serviti è indubbio, ma piace la sincerità dell’analisi, il ribrezzo per un mondo che non è quello giusto. La corrente del racconto è tumultuosa proprio per questo, per un sentire che si intuisce autentico, e per una scrittura di alta qualità. Il “disagio errante” di un pezzo di generazione è palpabile, così come la ricerca di un’identità scavata in chi non vuole assuefarsi a modelli aberranti. Libro attuale, dunque, perché quei modelli hanno vinto per vent’anni, nessuno li ha sconfitti se non forse l’economia che ha sconfitto anche se stessa. Stupisce che nell’ultimo terzo del libro diventi sempre più frequente il termine «niente»: perché verso quello si va. Ma, per fortuna c’è un ma: fanno il loro ingresso le vecchie, solide, ineliminabili fondamenta del mondo e dell’essere: la natura, per esempio, e l’amore. Così la storia di Alice, non classica ma fatta di momenti, accadimenti anche banali, introspezioni, ce la fa conoscere bene, benissimo: tanto che quel “tu mi guardi” alla fine è rivolto al lettore.

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