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La Gazzetta del Mezogiorno
Alice non sa di quei confusi e inesplorati anni Novanta
di Maria Grazia Rongo

29 giugno 2014.

Cosa resterà di quegli Anni Novanta?

Se lo chiede e lo chiede al lettore, l’autrice di Tu mi guardi (Nordest ed., pp. 254, euro 13,90), seconda prova narrativa di Laura Lauzzana, che ha esordito nel 2009 con Il resto del giorno. Udinese di origine, Lauzzana lavora come giornalista tra l’Italia e gli Stati Uniti e si occupa dei temi dell’immigrazione e della cooperazione.

A guardarsi dentro e a guardare gli altri, nel romanzo, è Alice, fresca di laurea nella metà degli anni Novanta a Padova, con la sua compagnia di amici coetanei o molto più adulti di lei. È la confusione a scandire i ritmi dei giorni, anche quando pare che una meta ci sia, perché il più delle volte invece la meta non c’è, c’è solo quell’andare in una direzione sconosciuta non preoccupandosi di volerla conoscere, peregrini dell’anima più che dei luoghi. Perché per cercare una meta bisogna avere un punto dal quale partire, uno start che ti offre quel balzo in avanti necessario per iniziare la tua corsa, ma se il punto di partenza è irrisolto, se non esiste un momento, fermo, dal quale prendere lo slancio per andare avanti, allora la confusione diventa una componente costante.

Alice e i suoi giovani amici, forse, quel momento dal quale partire l’hanno individuato, è la storia politica e sociale della loro città negli anni che hanno preceduto il loro ingresso nel mondo degli adulti, gli anni Settanta, che vogliono ricostruire attraverso i racconti maturi di chi quegli anni li ha vissuti. Ma è qui il nocciolo della questione: la maturità di chi ha affrontato quel percorso è arrivata o gli adulti hanno partorito una generazione orfana di padri e madri, lacerata dalla dicotomia tra inguaribili romantici dei tempi che furono – piombo compreso -, e accaniti denigratori, costellata di cattivi maestri sempre in cerca di qualcosa che non c’è, che sia un eskimo fuori moda o una bottiglia di champagne a buon mercato? E badate bene, non è Padova a portare l’etichetta di città incompiuta, confusionaria, inconcludente, perché Padova potrebbe essere Bari, Milano, Roma, qualsiasi città in cui l’apparire della società edonistica, ha completamente sotterrato l’essere e il voler essere delle comunità che venivano agognate negli anni cruciali per l’Italia della seconda metà del Novecento.

Il risultato quindi non può essere che il disagio, non può essere che il market dello spettacolo ad ogni costo che ha prodotto il suo risultato più spaventoso e doloroso e cioè quello di aver trasformato anche la cultura in spettacolo, non può essere che vent’anni di berlusconismo, non può essere che veline e tronisti e amici di Maria De Filippi.

L’autrice riesce a comporre anche il suo stile narrativo e il linguaggio dei personaggi quasi disegnando una spirale di sabbie mobili. È in questo guado che si muovono Alice e i suoi compagni di avventura, quando, negli anni Novanta, come tanti giovani italiani si trovarono al bivio di una scelta: farsi sopraffare da un mondo che esibiva tette e lacrime in tivvù o guardarsi dentro e opporsi alla fagocitazione, all’appiattimento, all’omologazione. In soccorso però ci potrebbe essere, anche questa volta, l’arcobaleno, che i giovani di allora, i quarantenni di oggi, in molti casi, hanno imparato a dipingersi da soli, ma tutto questo Alice, ancora, non lo sa.

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