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Corriere del Veneto/Veneto Blog
“Tu mi guardi”: Padova negli anni ’90?…non solo
di Bruna Mozzi

LauraLauzzana077 giugno 2014.

Un testo che non ci fa mancare nulla, il libro di Laura Lauzzana (edizioni Anordest, 2014) la nostra città (Padova) con il quartiere del ghetto e il centro storico, gli ateliers degli artisti o pseudo-artisti e le mostre d’arte, le conferenze di filosofia e le aule universitarie; oltre ad una Milano fatta di vernissage, di fashion, di pettegolezzi e gossip metropolitano. Con qualche affondo geografico oltralpe (Londra Parigi) o oltreoceano (NY). Eppure i riferimenti geografici sono tra pub e bar in cui prendere uno spritz o farsi due chiacchiere oppure litigare col cassiere o il barista un po’ troppo “fighetto” che scruta con fare da snob il quarantenne di turno impiegato comunale artista incompreso un po’ frustrato. E ancora i circoli ARCI e gli attici coi soffitti a travature perfette. Si perdona alla scrittrice che di Padova non è, bensì di Udine, la svista di un presunto Palazzo della Signoria (pag 35) che a Padova proprio il padovano medio non saprebbe riconoscere se non riconducendolo alla Piazza dei Signori e un’Abbazia di Praglia che è descritta mentre “ si inerpica su per la collina” (pag 203).

E se queste sono le coordinate spaziali, quelle invece temporali sono gli anni Novanta in cui le generazioni dei quarantenni, eredi dei rampanti anni Ottanta, sono all’ inizio della crisi; così come in crisi è chi non trova lavoro, chi non si vede rinnovato il contratto, chi deve conseguire masters all’estero per sperare in un minimo successo, chi spera di fare il botto imbrattando tele e sperando di imbattersi in un talent scout.

Dopo il romanzo di esordio “Il resto del giorno” (del 2009) con un’adolescente che diviene donna e che sceglieva, una volta fatta l’esperienza della città il ritorno alla provincia per dare un senso profondo alla propria esistenza, anche in “Tu mi guardi” compare una lei – Alice – che come molte donne di oggi è in continua ricerca di un sé solido e più profondo di quanto promette una vita superficiale e che invece si trova a spartirsi con una professione fatta per lo più di abiti casual-chic, di tacco 12 e vestiti fascianti e fruscianti, un ambiente in cui tutti dicono male di tutti: una crisi di identità come quella che ha vissuto la generazione degli anni Novanta, ma che stalla persistentemente anche in quelle del 2000 e in quelle di oggi. E’ la storia di un tentativo di ritrovare il passato, le cose “che – cito dalla pag 29 del libro – ci accomunano più che quelle che ci dividono” contro la “presenza umana come il cemento” del Nordest dei centri commerciali, dei nastri d’asfalto, delle fabbriche e dei capannoni, spesso qui evidente metafora del grigiore dei rapporti umani. Eppure in tutta l’opera sta l’attesa di una svolta, svolta che si respira imminente quasi ad ogni pagina e in ciascuna delle tre parti in cui il libro è diviso: un desiderio che si fa intenso, di avanzare nella lettura, alla scoperta dei personaggi e della narrazione che potrebbe o dovrebbe essere quel “qualcosa di un certo valore per cui vale la pena lottare” (anche qui uso le parole della Lauzzana (pag 52 e segg). Valore che sembra essere racchiuso nella memoria di una quotidianità piena di sapori ed odori e colori che arrivavano dritti al cuore senza interferenze (pag 232) che fa dire ad Alice-Laura: o solo se potessi tornare indietro con gli anni, cercando rifugio nel tempo e nei luoghi dell’infanzia dove le cose venivano da sé (pag 232). Non è solo nelle riflessioni esistenziali su di sé e sui propri simili siano quest’ultimi compagni di stanza, di letto, di lavoro, che la Lauzzana mi pare dia un respiro più appassionato e evocativo alla narrazione, ma – forse – con maggiore incisività in alcune brevi espressioni illuminate, schegge lucenti di un ricordo che nella pagina diviene sintagma come ad esempio quel non indispensabile al plot, ma tanto apprezzabile distinguo che tutti abbiamo conosciuto nelle aule liceali, tra verum e ἀλήθεια (alétheia= verità) che Lauzzana utilizza, commentando una conferenza di filosofia.

E quasi in una meta-letteratura a volte l’autrice conserva questa caratteristica di riflessione acuta e di profonda meditazione sull’esistenza, trovando in questa materia – la letteratura appunto – uno spazio vivibile, un angulus di sopravvivenza per cui la sua protagonista dice: “la letteratura ci salva dall’insipienza”(pag 77) e dimostra di conoscerla, la letteratura, di quel genere più amabile e amato, quella della memoria adolescenziale che si imprime in ciascuno di noi più forse delle esperienze giovanili e adulte: non posso non ricordare la parete delle stelle che sgorga dalle pagine di ben altro Diario (quello di Anna Frank) e che Alice (Laura?) riprende, a descrivere la propria stanza fatta di foto e di memorie, di tazebao e poster con le icone di Simone Weil, Emily Dickinson, Kerouak, Ginsberg, e dove spera trovare un rifugio ed una disperata serenità.

Una catabasis dentro se stessa, in un turbinio che è quasi centripeto all’inizio del volume e trova più calma e riflessione quasi maturità mano a mano che si prosegue nel racconto, come se il percorso di Alice fosse poi quello che Laura, a modo di catarsi sembra fare nell’esercizio quotidiano di scrittura e il lettore pare ripetere nella foga delle pagine iniziali e nella calma dell’epilogo. Un cammino verso l’amore per un uomo, per se stessa, per la vita vera, non quella dell’immagine, della vanità e della mera e vuota forma, ma quella della verità e trasparenza dell’essere, fatta di due corpi che si abbracciano, due sguardi che si incrociano, due anime che si comprendono.
Un romanzo scritto in prima persona che potrebbe sembrare in qualche pagina un diario, ad osservarne talvolta l’introspezione, ma che diviene invece cronaca di vite verosimili nelle pagine in cui descrive episodi ad intrecci narrativi spesso ironici, talvolta divertenti, mai però comici. E si cristallizzano poi in un eterno di archetipi eterni: la ricerca di sé, l’inquietudine e il nulla dell’esistere, l’amore. Una sintassi disinvolta, scritta spesso in forma nominale, cioè con frasi senza verbo, che in modo simbolico ricorda la ricerca esistenziale e quasi montalianamente ridotta all’osso. Fino in profondità, fino all’essenzialità delle cose e del reale cui l’autrice non dimentica mai forse un po’ troppo anaforicamente di rifarsi. Una scrittura che non risparmia – dove necessaria – la crudeltà dell’espressione e del pensiero, ma che non urta mai, mai infastidisce.

In una città come Padova in cui diffusa è la dialettofonia specie per la comunicazione privata, lingua della confidenza e della amicalità dell’osteria e più recentemente del pub, manca la scrittura o per lo meno la battuta in dialetto padovano. Quel dialetto che è anche un modo per noi padovani di essere più disinvolti e vicini all’altro. Ma l’assenza di questo è colmata da una cura linguistica dell’italiano, una scelta che indubbiamente è voluta e fortemente ricercata dall’autrice: un italiano che oltre ad essere, come si diceva, depurato di ogni dialettismo, assume un periodare veloce, che diviene un’andatura più lenta solo dove si fa introspettivo e riflessivo; la lettura scorre come in una strada che si imbocca in piano e talora in discesa, non si non incespica mai; ci si ferma semmai quando l’anima o il cuore di Alice singhiozzano e fremono di inquietudine. Una subordinazione che ha il giro di un paragrafo e che spinge il lettore ad accelerare verso la fine; lessico scelto, aggettivi misurati ma dal ventaglio ampio, adatto via via ad ogni ambiente, situazione, avventura. In un’alternanza di dialoghi (forse troppo pochi?) e di parti narrative, poche le descrizioni pedanti o precise al particolare del colore o del tono o del suono, ma tanto lo spazio dato piuttosto all’essenziale da dire perché il lettore abbia la possibilità di intuire e/o di immaginare. Sì da confermare quel segreto arcano che fa di un insieme di pagine un libro interessante e avvincente.

Mi piace terminare questo intervento a commento del romanzo con l’immagine poco cittadina e per nulla metropolitana, ma profondamente veneta, che Lauzzana ci regala verso la fine del libro, quando (pag 231) alla maniera non di una fuga o di una resa, ma con lucida consapevolezza e nitida speranza, fa dire alla sua protagonista: “e di fronte a tutto questo, dopo alcuni giorni mi fa male capitare all’improvviso in un cortile perso nella campagna poco fuori dalla città per chiedere informazioni e ti vedi tutti quegli animali e tanti bambini che scorrazzano e una donna sorridente presa nel suo lavoro necessario e utile…con quel tepore e il silenzio interrotto da grida allegre e suoni naturali, avresti voglia davvero di ritirarti sotto quelle gonne protettive, così incapace di trovare la pace.”

E quel niente tragico più volte iterato e sempre vuoto si riempie subito di speranza e di amore.

Un’ennesima “Via di fuga”…

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